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Paola Castagna


…quando i dubbi portano alle certezze, mai viceversa…

 

Quando i dubbi portano alle certezze, la consapevolezza è racchiusa in una foto (lo diceva Man Ray). Così il fotografo, colui che possiede il terzo occhio, ci racconta come l’uomo affonda sempre nella sua storia, oppure nel mito.

Roland Barthes definiva il “punctum” (il “fuoco”, il “punto focale”) come quella freccia che parte dalla fotografia e va a colpire (ad attirare) l'attenzione e il ricordo dell'osservatore. In questo caso il tutto avviene nella semplicità di uno sguardo, in quei “ritratti” che l’artista ha immortalato, rendendo viva l’immagine, quindi mai fine a se stessa, bensì trasformandola in una perenne continuità di visioni. Il “punctum” di Carotti, infatti, rende il pensiero, l’emozione, e si sviluppa nel negativo di una foto: forse quella che non ci mostra, perché racchiusa nell’intero racconto della sua opera: una serie d’immagini che non solo guardi, ma che ascolti; perciò, la sua, è opera che ti mette in collegamento stretto col sentire, che ti avvolge, che ti circonda come un vortice. Direi un tormento delicato, sviluppato lentamente sulla pellicola, poi in quell’istantanea che rende luce solo nel tempo a venire. E vi è dell’altro… in questo “libro” non esiste solo lo scatto di colui che vede, che osserva, bensì anche la consapevolezza di essere, perché Fabrizio risveglia sentimenti arcaici se non arcani, spesso dimenticati. In effetti egli è un artista che ci rammenta di non dimenticare, in quel tempo in cui l’uomo, di continuo, scorda il suo passato. Le opere di Carotti sono, di conseguenza, una sorta di racconto impregnato di esseri che pullulano nel flusso del narrare, non a caso tante le “frasi” che esprime, nel nostro tacito consenso.

La sensazione è quella di entrare in una specie di “paese dei balocchi” che, come tale, cela un qualcosa di non visibile a occhio nudo. Opere oniriche, quindi, infinite, volatili.

Comunque il “vero”, dominante l’immagine, è forte seppure misterioso, e inchioda, così che ti senti guardato, scrutato, interrogato, messo in discussione, in modo che l’artista, attraverso la sua fotografia, ti obbliga a denudarti di ogni avere, e che questo sia materiale o mentale poco importa, rimane il fatto che ci si trova spogliati e riflessi.

Quel suo mondo fantastico, eppure così reale come stimoli, vive un idillio di colori delicati in contrasto con altri più duri e sanguigni, direi sguardi che raccontano vite vissute e non vissute, scorci di una quotidianità celata che preserva la sua naturalezza in una nostalgia di ombre, immortalate segretamente in un  andare come in viaggio; quel viaggio che non trova pace in un approdo finale, ma, piuttosto, che infinitamente vive nel superamento di mille pericoli, ostacoli, prove, e nella verifica di mille esperienze; in modo che diventa prova di conoscenza, nel senso più ampio del termine, e così poi appare, sulla carta impressa. Quindi ci troviamo di fronte non più alla resa introspettiva, simbolica, sensoriale o evocativa dell'immagine, ma quasi a una sua anatomia costituita nei frammenti, estrapolati dalla carne viva o divelti dalla corteccia cerebrale

In questa maniera, spesso “violenta”, Carotti diviene lo stimolo naturale che ti porta alla ricerca del nuovo, all'istintiva attrazione per l’ignoto. Infatti egli possiede il mezzo tecnologico e l’elaborazione tramite il medesimo, ma sua è, soprattutto, una concezione estetico-narrativa che non concede soste. In questo modo Fabrizio tratteggia in poco spazio un ambiente o una situazione, nei quali muove personaggi, a volte uno solo, a volte nessuno, lasciando la possibilità di costruirci, di formarci, attraverso il guardare. E così il fotografo percepisce, in una frazione di secondo, l’importanza simbolica di un momento di vita (o di morte) che è assolutamente irripetibile quale  porzione del reale, mai più riconoscibile e rintracciabile, perché sfumata oppure eterna. Questa, infine, la metafora del viaggio che ciascuno di noi compie nella vita; così come il perenne ripetersi di viaggi, senza un punto d’arrivo prestabilito, se non nella consapevolezza del divenire. Non per nulla la fisicità corporea, in queste immagini, è spinta all’estremo dell’essere, fino allo stravedere di un occhio che si sovrappone all’altro, dilatando (in polverizzazione) il margine d’errore (fisiologico per naturale imperfezione) fino al visionario, divenendo scrittura poetica, scorrere del fiume, mulinello d’aria. E in questo l'aspetto più peculiare, a livello estetico (nel senso, innanzitutto, di “visibile”, cioè di “rintracciabile”), che maggiormente ci colpisce per la qualità tecnica veicolata e rinforzata da alcuni aspetti formali “segnati” dalla postura dei protagonisti e dagli elementi ritratti. Ed è in quei “segni”, nella loro capacità di restituirci amplificata tutta la dimensione tragica o felice dell’esistere, che lo spettatore, innalzando gradualmente il livello di empatia (…orrore, terrore, sdegno, sconforto, gioia, sorriso, vita, morte… naturalmente il tutto condiviso con l’artista), comprende lo spessore e il peso di questi souvenir di emozioni, che lo rendono protagonista, e non solo anonimo viandante o semplice fruitore.

Paola Castagna