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Gabriella Cinti

ATHLETEIA

E’ un movimento-suono quello che vediamo nelle opere di Fabrizio Carotti, in cui lo sport rappresentato è un pre-testo per esprimere una visione ellittica e quasi funambolica della realtà. Nella prima opera, “la grande rete”, il giocatore, è raffigurato negli arti, come ombra quasi platonica, da mito della caverna, con ectoplasmi di vesti bianche, sullo schermo di un giallo-sole verso cui si protende, arrovesciandosi all’indietro in una movenza a ancestralmente quanto inconsciamente iniziatica, con movenze che vanno molto al di là della logica funzionale del gioco.

Il giallo che lo circonda non rassicura, è una specie di barriera del suono-luce o cerchio di fuoco (vagamente all'uso per altro nella curva accennata in scuro), che attende il giocatore della vita nella sua eterna agoné.  E se la donami contrasta una stasi che è morte e paralisi, allora viene da identificarsi nell’ombra vivente che nello scomporre l’equilibrio del corpo nella sfida estrema, ricostituisce un’altra sostanza, che possiamo solo intuire, una volta approdato nell’oltre e consumato che sia il gioco-sacrificio che ne scardina la corporeità. Il gioco consente il salto metafisico ad altra vita che porta con sé il nostro sguardo che si fa, nello stesso tempo, pensiero oltrepassante.

Questo  è un calcio pensato, pensato di alto valore simbolico. La componente agonica pulsa specie nella prima e terza immagine del trittico, specialmente nel coagulo pulsante e materico ai piedi degli atleti, una sorta di massa di immagini da cui emerge la figura come un prigione michelangelesco, ancor più svettante verso il fuori, l’oltre.

Si tratta di una specularità intravista che rinvia ad una interrogazione implicita di identità, nello sdoppiamento alluso del quadro ne quadro, che incarna il simbolo per eccellenza del conoscere, lo specchiarsi, sia pure nella dinamica dell’azione.

Una ricerca eterna dell’uomo ma ancor più valida nel mondo di oggi, predominato da un iconismo assoluto, dove le immagini contemporanee di Carotti, mentre si svelano, ci offrono e ossimoricamente ci negano, il senso di un compimento dell’azione, condensato nel gesto atletico, fornendoci dunque una inquietante e problematica rappresentazione della semanticità anfibologica del gesto sportivo.

Gabriella Cinti

14-11-09

Le opere di Fabrizio Carotti abitano nella luce e nel tempo di un passato classico che in lui costituisce un’allusione sottesa al presente, grazie ad una sovrapposizione di piani, intuibili nella “dynamis” delle immagini. I corpi sembrano in volo, una sorta di psiché del corpo- anima-farfalla. Il riferimento ellenico è quindi d’obbligo . Non si tratta tuttavia di una semplice influenza “retrò”, ma di una reale adesione a questa dimensione antica e al contempo universale che egli fa rivivere nei suoi corpi e visi. Il moderno si sovrappone come un velo, e spesso è un velo di sola luce (ricordo che la simbologia del velo arcaica ed esoterica è assai complessa), con la raffigurazione di moderni atleti del nostro tempo ma l’uomo ellenico permane ed anzi ne viene esaltato, perché “simbolo” (nel senso greco di ciò che congiunge dimensioni diverse) dell’eterno archetipo maschile. I suoi corpi ellenici sembrano parlarci più che guardarci, la comunicazione con noi attraverso il filo dell’artista-medium; essi hanno uno non-sguardo rivolto in qualche modo verso l’interno, velo nel velo ma attendono qualcuno che  restituisca l’ancestrale parola che esse custodiscono e che  possiamo solo intuire. Sono immagini quelle di Carotti  che coniugano pensiero, colore e linee, annullando qualsiasi intento puramente descrittivo.  

E senz’altro l’atleta di Carotti secondo il significato etimologico della parola è colui che lotta con la vita, prima che con il suo corpo, emblema di una tensione verso una pienezza vitale, risultato di un combattimento che forgia corpo e mente. Questa intensità esistenziale ci è suggerita dalla luce densa, quasi materica (ma anche nel bianco e nero argenteo, quasi lunare), che smalta i suoi corpi esaltandoli e al contempo dotandoli di altra materia. Ma vi è anche l’allusione più o meno consapevole al marmo, specie quello romano, caldo e cromatico, a quella parola greca che sta ad indicare la luce splendente che tale materiale emana, per cui la materia stessa è la luce, la luce cioè non vi si appoggia ma la costituisce in modo intrinseco.

Il senso della solitudine della condizione umana che sigilla la condizione dell’atleta, solo nella lotta come l’uomo di fronte all’agone della vita, mi appare traslarsi ad una visione di questo atletismo, come impegno integrale dell’uomo, rivolto perciò anche alla conquista faticosa e sofferta della conoscenza. Anche nella presenza congiunta e plurima nelle immagini io avverto questa decisiva individualità, per cui uno non è mai specchio nell’altro, anche se con l’altro gioca la partita della vita.

La drammaticità del guscio monistico e il gioco decisivo e mortale dei corpi-manichini rivela decisamente questa impossibilità di comunicare che è l’umano destino, che l’arte, più che infrangere, consacra pur in una visione prismatica affine a quella del sogno, a cui spesso attinge. E a noi che guardiamo, resta la luce metafisica di un altro collocamento, o spostamento del reale, o meglio ci resta una direzione, mobile come questi corpi, come queste gambe, e quindi un percorso, quasi un met-odos   per viaggiare nel mondo e nel tempo.

 

Gabriella Cinti

Jesi, 13-10-09