Gianluca Marziani
Nero: denso e cosmico, avvolgente per natura biologica, infinito nella sua percezione del vuoto siderale. Il discorso figurativo riparte dal fondale che ha intinto la propria carne nel buio assoluto, dentro le ragioni metafisiche di un’oscurità in cui batte un potentissimo ritmo dal suono cardiaco. Fabrizio Carotti riscrive il corpo nella geografia definitiva del nero, aprendo connessioni col Seicento ma anche con Goya, Francis Bacon, Bill Viola, con quel modello iconografico che agisce per immersioni/emersioni, sul limbo che unisce il tutto al nulla, senza mediazioni o diplomazie del pensiero/sguardo.
Il lungo tuffo nel nero. Vi ricordate “Ocean Without a Shore” (2007) di Bill Viola, un video dove le figure escono dal buio per avvicinarsi alla luce in maniera lenta e continua, varcando una parete d’acqua che è la soglia tra mondo fisico e ultraterreno? Partirei da questo capolavoro per introdurre l’arte liminale di Carotti con la sua visione umanistica del reale. Il motivo? Perché al centro torna l’essere umano che dichiara l’impatto della carne, del movimento istintuale, dei muscoli vivi, delle espressioni emotivamente accese. Un corpo che esprime la potenza della fisicità mentre ridesta i sensi, aumentando le percezioni attraverso la limpidezza delle reazioni sul viso, sulle braccia, sul torso, sulle gambe… Il corpo si trasforma in una macchina muscolare ed espressiva, pura vibrazione emotiva che arriva da zone ataviche, geografie ancestrali, mondi psicanalitici ed esperienze radicali. Da qui il principio di immersione/emersione, tipico di chi focalizza l’inquadratura sul potere nucleare del corpo senza mediazioni, figlio delle proprie reazioni sentimentali, dello spirito che accompagna le azioni, delle idee che supportano l’avventura etica di ogni percorso umano. I protagonisti entrano ed escono da un nero solido che rappresenta la sintesi concentrata del mondo interiore. Un cosmo infinito in forma d’ambiente astratto, una vertigine geologica che il corpo attraversa con la potenza del suo tuffarsi e risalire senza esitazioni, provando il brivido del vuoto, la discesa verso nuove gravità e altri vortici centrifughi.
Riflettevo sulla dimensione geografica del nostro Carotti, sul legame viscerale con una regione, le Marche, che da sempre regala artisti “cosmici” dal pensiero alto e dalla visuale aperta. Penso al quadri magici di Osvaldo Licini, alle sculture alchemiche di Eliseo Mattiacci, alla pittura liminale di Enzo Cucchi, al digitalismo apocalittico di Paolo Consorti: solo qualche esempio per destare l’occhio su un’attitudine che unisce il territorio reale al mondo spirituale, alimentando un’apertura olistica che si riavvolge fino al Piero della Francesca di Urbino, agli infiniti di Giacomo Leopardi, ai dinamismi posturali di Lorenzo Lotto, ai simbolismi stilizzati di Gino De Dominicis… nulla accade a caso, soprattutto quando le impressioni nascono da ritorni temporali in un comune spazio elettivo, dentro una regione di mare calmo e campagna morbida, con un occhio sull’Adriatico e uno sugli Appennini che delimitano e proteggono, tra borghi antichi e piccole città dal carattere autonomo e dalle radici filosofiche. Mi stupisce sempre come il territorio, quando la mossa passa ad un artista marchigiano, si trasformi in archetipo o si annulli a favore di corpi centrali e forme simboliche, quasi a mantenere una riservatezza nel modo di riferirsi al proprio contesto. Carotti conferma questa tesi, nel suo caso il paesaggio si annulla dentro la costruzione luminosa, trasformandosi in pura luce solida, astratta e avvolgente, ispirata, ricca di pathos e drammaturgia.
Solo la luce solida rende possibile il legame cellulare tra fondali neri e carne viva. E’ una luce della mente emotiva, un mistero in azione, sorta di movimento tellurico tra cervello e cuore. Il corpo spinge per rompere il guscio di quei fondi, come placche terrestri in cui vince l’entropia salvifica, capace di far galleggiare l’umanità fuori dal buco nero dell’indistinto. Caravaggio ne divenne maestro, così gli altri grandi del barocco italiano, così la scuola spagnola, così la carica concentrata di Bacon, fino a Christian Boltanski, Gary Hill, Bruce Nauman, non dimenticando le astrazioni apparenti di Kazimir Malevich, Mark Rothko, Ad Reinhardt. La luce di tutti loro possiede una speciale solidità che arriva dalla compressione dell’universo dentro il segno unico e definitivo. Ha qualcosa di subliminale e inspiegabile, riguarda la natura delle stelle e il microcosmo cellulare, il mistero e l’eleganza ascetica, la chimica e la filosofia… non è facile raccontarla poiché non è possibile circoscriverla, sfugge da ogni dove, si insinua e cresce, si autogenera e autorigenera come il moloch in cui ritrovare le origini e l’interminabile fine.
Dal buio emergono le posture vive delle figure, libere da ogni orpello, pure nel loro apparire senza i veli del tempo reale. Soffrono, si dimenano, sentono la misura del dolore e delle attese, vanno verso obiettivi che scivolano via ma non scompaiono. Usano la forza e il controllo per aggrapparsi ai sentimenti estremi, non cercando mediazioni mondane e compromessi istituzionali. Sono corpi che catturano l’odore della grande sfida e ne accettano le regole durissime, così come accadeva quando una deposizione o un’estasi erano modelli di potenza morale.
Carotti costruisce un mondo parallelo che sfrutta la tecnologia digitale in maniera asciutta e pittorica. Ha capito il senso del limite davanti al potenziale tecnologico, ribadendo una condizione diffusa tra gli artisti che rendono l’elettronica uno strumento ormai maturo, minimale nel suo intervenire dove la necessità linguistica diventa azione grammaticale. L’intervento agisce per sottrazioni e allineamenti, senza caricare o ribadire attraverso alcuna accentuazione. Si elabora l’immagine per variazioni tonali e assenze, lungo scie luministiche che trafiggono la luce solida del nero. Ogni postura assume così un valore impressivo e concettuale, dichiarando la reazione ma anche il pensiero che anima il singolo protagonista. E’ l’arte che torna a parlare di potenza e non più di potere.
La forma rivela l’interezza del contenuto.
Mi piace la tensione letteraria e filosofica di un lavoro visivo, la sua capacità di evocare storie e pensieri attraverso la distillazione delle immagini. Per Carotti ogni ciclo nasce da uno stimolo di alta estrazione umanistica, basti pensare alle opere ispirate da Dostoevskij o al filo rosso con certi quadri del Seicento, Caravaggio in testa ma non solo lui. Ogni lavoro vive la personale ambizione dell’icona che supera il confine dello spazio e la fortezza del tempo: perché l’opera del nostro marchigiano segue la strada dei classici, insinuandosi tra le pieghe iconografiche dell’alta tradizione pittorica, quella che ha segnato il cammino figurativo da Giotto a De Dominicis. Guardi le opere di Carotti e non trovi allacci mondani, nessun segnale di attualità urbana, nessun abbraccio coi media e i feticci del nostro piccolo mondo inquieto. Un artista che lavora fuori dalla piattaforma apparente del proprio tempo, in realtà completamente immerso nella decadenza collettiva, nel valore traballante, nelle derive (im)morali del presente. La sua scelta è stata netta: annullare i riferimenti esterni per estrarre l’atomo emotivo dell’umanità, per andare sotto, nel fondo dei sentimenti radicali, delle energie che animano le lotte individuali. Tutto ciò diventa estremamente contemporaneo, un recupero di valori che sono innati nella corrente spirituale di certi artisti italiani: quelli che sentono l’immagine e il suo valore espansivo. Carotti indaga il nucleo cardiaco di quei valori decadenti, non cercando le azioni traballanti ma i prodromi o le conseguenze della deriva, la prostrazione e la sofferenza di chi sta per compiere o ha compiuto lo sbaglio. Un’arte che ritrova il tremore dell’umanità, la paura negli occhi, il pathos sulla pelle ma anche le speranze inalienabili, la luce oltre il nero, la possibilità di un altro bianco in cui nuotare.
Un’arte dove si lotta per salvare la propria anima.
Gianluca Marziani