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Valerio Dehò

 

“OCCHIO DORATO SCURA PAZIENZA”

Fabrizio Carotti usa la fotografia con una ponderatezza che non diventa mai incapacità a  non farsi coinvolgere dalle possibilità di un confronto con la temporalità rappresa. Parte dalla fotografia come genealogia impossibile per aprirsi ad una sperimentazione verso altre situazioni e verso la pittura stessa, che è consanguinea per la sua generazione. Il digitale fa sì che i tempi della ripresa e dell’elaborazione coincidano in un’ unità di tempo infinitamente  variabile. Da un lato è la pittura che sorprendentemente riappare nelle  opere  di Carotti che recano tracce di trame e di antichi graffi, di colori scaldati e quasi ossidati, di un tempo che virtualmente ha abbracciato uomini e paesaggi in un abbraccio figurale. Dall’altro i volti così contemporanei e la stessa velocità delle pose, i movimenti spesso storditi d’immediatezza, ci riportano nell’alveo di una tecnica che sappiamo possa sempre cogliere gli attimi che perdiamo nel corso della nostra esistenza. Ma il gioco dei paradossi sta proprio nel fatto che Fabrizio Carotti ricorda la pittura non solo quando le deposita una patina che avvolge cose e persone, ma anche quando ne riprende gli stilemi, soprattutto in chiave caravaggesca. La luce nera diventa allora una sorta di negazione della fotografia, la camera chiara di Roland Barthes ridiventa scura, proprio perché la fotografia attuale, quasi interamente  digitale, è aperta verso paradigmi in cui il mezzo sembra farsi da parte, sembra non voler diventare determinante per chiarire la pozione dell’artista rispetto al mondo e rispetto alla storia dell’arte. La cultura di Fabrizio Carotti lo conduce poi a misurarsi non solo con le zone impervie dell’arte ma anche non la letteratura e non a caso ritorna nei recentissimi lavori un gigante come Fëdor Michajlovič Dostoevskij  che alle "memorie del sottosuolo" ha dedicato un’opera irrinunciabile. La sua fotografia nasce propria da questo radicamento della coscienza della fotografia rispetto all’universo d’immagini generate non solo dalla pittura ma anche  dalla letteratura, madre di tutte le arti. Questo è importante perché questa fotografia, o  pittura digitale come si usa chiamare, mostra una progressione verso la sfera del noumeno che prima non poteva avere. Come a dire che proprio uno strumento legato alla tecnologia diventa il depositario di un sapere legato al profondo, alla memoria, agli archetipi a quell’ universo che anche in chiave antropologica, è sempre appartenuto alla cultura. Non a caso bisogna rammentare una parola che probabilmente il lavoro di Carotti riesce benissimo ad esprimere: “teatro”, inteso tanto come “teatrum mundi” che come  “teatro della memoria”. L’artista riesce perfettamente con grande lucidità a sondare le immagini paradigmatiche  di una civiltà: la compassione, il dolore, la morte, l’amore, la sospensione temporale. Si attende da perfetto utopista che sia la bellezza a salvare un mondo che al contrario s’ inabissa nell’indifferenza delle immagini sovracodificate dai media. Qui accade il contrario, e che Caravaggio si affianchi ai Demoni o all’Idiota di Dostoevskij è prova che la cultura occidentale possiede ancora dei punti di riferimento e delle icone anche per le generazioni attuali. La fotografia pittorica di Carotti riesce a sintetizzare quello che si affaccia sulla scena dell’arte figurativa contemporanea, sempre alla ricerca di una medietà tra le strutture del profonde e i miracoli della superficie digitale. Ma anche alla ricerca di un’originalità di una visione del mondo che sappia essere equidistante tra il passato e il futuro, in una consapevolezza delle origini che è soprattutto scelta di una posizione nel mondo.Per questo il confronto tra pittura e fotografia appare più indefinito adesso, appare come un qualcosa che ci ricorda qualcos’altro e che resta un’idea che qualcuno ha perseguito e realizzato, ma sta progressivamente diventando un ricordo. L’importante è ricordare che se il Novecento ha distrutto quasi tutto, a questo nuovo secolo e alle sue generazioni non resta che ricostruire  dai frammenti sparsi, dalle rovine del senso.


Valerio Dehò